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Archivio per febbraio, 2011

Voglio lo scudo.

Stamani il mio risveglio ha bypassato quei 2,3 minuti di incoscienza, quando dal sonno più o meno beato passi alla dura realtà della giornata che ti aspetta.

Quel brevissimo lasso di tempo in cui ti sembra che tutto sia ancora possibile e che in realtà hai ancora potenzialità da far emergere, fantasie da realizzare e senti aleggiare la speranza di un mondo migliore.

Una mano oscura mi premeva sul petto e non trovavo la forza di alzarmi.

La conosco…si chiama angoscia, impotenza, paura, anche.

Si sovrapponevano le immagini di due piccoli angeli travolti da una crudeltà ingiustificabile, di un omino superficialmente sottovalutato che invoca uno scudo (spaziale?) per condurci quanto prima nello scenario per me più impensabile, ma tremendamente realistico, un regime.

Pensavo alle lotte e alla sofferenza di altri uomini, di altri paesi, che scendono in piazza e muoiono ancora per difendere i loro diritti (negati)  e le (poche) libertà rimaste.

Mi sono chiesta perché..si dice sempre che in fondo al tunnel ci sia la luce, come nella bellissima carta dell’Eremita degli Arcani Maggiori, ma la mia miopia sta avanzando a passi enormi e sto perdendo la cosa più importante, la speranza.

Voglio uno scudo anch’io, voglio andare a Strasburgo perché  i miei diritti umani sono stati violati, lesi, azzerati.

Voglio rivendicare la mia “donnità”, che mi fa arrancare per arrivare alla fine del mese, ma senza cedere a palpatine o proposte indecenti.

Voglio che qualcuno faccia una donazione ingente di apparecchi acustici a chi siede sugli scranni del potere, un mese in fabbrica a chi gioca con l’ipad nelle sedute parlamentari, e manifesti di un metrox1 ovunque di scuse a chi tenta ogni giorno, e spesso lo fa sulla propria pelle e su quella di un’intera famiglia, di ristabilire un equilibrio annaspando come i  funamboli del circo, appesi a un filo.

Se nella tradizione orientale ci suggeriscono sempre di guardare alla propria vita come a una rappresentazione teatrale, della quale siamo spettatori più o meno distaccati, per osservare meglio quello che non va, beh…cambio scena, brucio il teatro e strappo i biglietti senza nulla da dichiarare alla Siae.

Perché questa non è la sceneggiatura che avevo scritto e le uniche variabili ammissibili erano quelle del Direttore, lassù.

Nessuno ha il diritto di togliermi il diritto.

E voglio lo scudo, tanto lo pagherò fino all’ultimo euro, ma non per difendermi né per nascondermi.

Per lottare, ancora un po’, magari non sono sola, e voglio sentire di nuovo serpeggiare un alone di speranza, quella roba strana che ci fa sembrare folli, si, ma non ancora dei semplici burattini.

Qual è il prossimo volo per Strasburgo? Vi aspetto al gate..

Parla con me

Ogni giorno ti racconto una storia, la nostra, per vedere se il tuo sguardo si illumina un pò, se perde quell’espressione assente, statica, lontana da tutti.

Preferivo sapermi lontana quando era solo il tuo muro di vecchi dolori a farlo, almeno sapevo che avevo ancora un obiettivo per lottare, per ribellarmi.

Per me c’è sempre una soluzione nella vita, non c’è situazione che non mi stimoli, anche nel tunnel più nero, e non mi faccia chiedere se c’è una via d’uscita.

Mi stai insegnando tanto: devo rassegnarmi a vedere quegli occhi spenti, a sentire quei vuoti che si allargano, che ti ingollano.

Posso solo stare lì e parlarti. Di me, senza farti preoccupare, come sempre, di te, di noi, concludendo come sempre: ricordi?

Siamo sempre state con i ruoli invertiti io e te, oggi ti accudisco come la mamma che non sono stata, ci metto l’anima, ma so che non lo faccio per vederti crescere.

Un pò mi fai rabbia…potevi aspettare a rimuovere tutto…potevi rispondermi ai mille dubbi che a volte mi piegano.

Ma ti sei sempre difesa così..e adesso posso solo tenerti per mano e dirti: parla ancora con me, di te, di noi…anche se non ricordi.

Ancora ci sei..

Gatta sorda o acqua cheta?

Ricordo con terrore gli anni delle scuole medie..devastata dall’acne (viaggiavo con lo zaino e il topexan), ossessionata dalla mole di compiti che ci affibbiavano oggi giorno e dalla compulsione all’esercizio della perfezione, non ritrovo ancora oggi, nemmeno nei meandri più offuscati della memoria, un pò di spensietarezza che a quell’età dovrebbe essere un leit motiv esistenziale.

Poi c’era lei..un incubo..la professoressa di matematica, creatrice di traumi e dubbi sulle mie capacità logiche talmente profondi che sono andata a ripetizione per una vita sognandomi algoritmi e formulette al posto delle pecore la notte.

Aveva una testa tanta così, nel senso che i suoi capelli corvini a criniera di leone la precedevano, e, uniti alla camminata da giraffa incerta, al sorriso ibernato, nonchè alle interrogazioni a catena, soprattutto nei miei confronti, l’avevano trasformata nel peggiore degli incubi, con tanto di attacco d’ansia appena metteva piede (piedone) in classe.

Ma, si sa, in fondo in fondo, facciamo di tutto per compiacere gli orchi delle fiabe, se non altro per non esserne fagocitati, così cercavo di essere sempre attenta, di alzare la mano (che crampi, non intervenivo mai), di sorridere tra le pustole dell’acne.

Niente, mi uccise con una frase detta davanti alla classe..sei una gatta morta.

Dopo innumerevoli pianti e scenate mi sono chiesta perchè.

Perchè gatta morta?

In effetti fino a non molti anni fa avevo timore ad esprimere anche il pensiero più banale, a chiedere a qualcuno che mi stava pestando il piede se per favore lo poteva spostare, a scusarmi all’infinito se non ero ancora diventata invisibile, come nelle mie fantasie più segrete.

Poi si cresce..e le ingiustizie ripetute, la rabbia per la negazione del tuo essere  e tutte quelle cose della vita che ti fanno dire basta, mi hanno insegnato a parlare..e, non avendo il dono della diplomazia, a guardare dritto negli occhi il mio prossimo dicendogli esattamente quello che ho dentro.

Si, ho perso un sacco di gente per la strada per questo motivo, ci ho sofferto un pò, ma alla fine è un problema loro.

E’ più forte di me, un misto fra il carpe diem (se non ti dico tutto oggi domani potrei non esserci per farlo) e un istinto ad espellere le sostanze tossiche, prima che si annidino ovunque.

Ti sei sbagliata prof…non ero una gatta morta.

Perchè non ho mai saputo fare le fusa, far finta di, manipolare un pò la gente per ottenere qualcosa.

Però penso di essere stata un’acqua cheta, un vulcano che ha pazientato e ingurgitato impotenza per poi fare scintille inattese.

E l’acqua cheta ti ringrazia perchè senza il dubbio di essere una gatta morta, oggi non riuscirei ad essere quella che sono.

La memoria del dolore

Un corridoio lungo e buio illuminato solo dal raggio di una pallida luna invernale, la sagoma di lei contro la finestra, il respiro ansioso nel corpo stretto dall’attesa.

Il mio passo lieve, volontariamente invisibile, vicina alla sagoma e impotente davanti alla notte interminabile che mi stava ingollando.

Tutto era cambiato in un attimo e mi attraversava un brivido di paura, l’ignoto mi era noto, per non so quale ragione.

I bambini non possono ricordare, dicono. Non è così. Ti appartiene ogni minuto, ogni respiro, ogni volto, se tu appartieni a loro.

La mattina sono andata a scuola con il mio compagno di banco, mentre le ambulanze sfilavano con le loro sirene assordanti.

Avevano a che fare con me, pensavo, e con quella camera che era rimasta vuota.

C’era un silenzio irreale dentro di me: non era attesa, era solo prendere tempo, prima che arrivasse la parola, la realtà, la sentenza.

Lui non c’era più, ma lo sapevo già.

E tutti quei volti, tanti, quelle carezze, troppe, a invadermi la mente già intorpidita da un dolore sconosciuto, non mi davano sollievo.

Era il mio primo dolore, unico, indimenticabile e volevo solo stare sola.

Ma ai bambini non viene mai permesso di stare soli, soprattutto di fronte al dolore. 

Da allora fuggo la notte, la temo, la controllo, invano, non chiudendo gli occhi quando sarebbe normale farlo.

Se mi avessero lasciato libera di esprimermi, non avrei avuto più paura del dolore, della gioia, degli errori, della vita, come l’ignoto che nessuno controlla.

Magari anche solo riprendere la penna, lasciare una traccia , ritrovare i ricordi come fotografie in bianco e nero, mi dà la forza di consolare la bambina che ho lasciato dietro di me, è lei la voce narrante.

E’ lei che deve dormire, quieta, nel buio delle notti invernali.