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Parla con me

Ogni giorno ti racconto una storia, la nostra, per vedere se il tuo sguardo si illumina un pò, se perde quell’espressione assente, statica, lontana da tutti.

Preferivo sapermi lontana quando era solo il tuo muro di vecchi dolori a farlo, almeno sapevo che avevo ancora un obiettivo per lottare, per ribellarmi.

Per me c’è sempre una soluzione nella vita, non c’è situazione che non mi stimoli, anche nel tunnel più nero, e non mi faccia chiedere se c’è una via d’uscita.

Mi stai insegnando tanto: devo rassegnarmi a vedere quegli occhi spenti, a sentire quei vuoti che si allargano, che ti ingollano.

Posso solo stare lì e parlarti. Di me, senza farti preoccupare, come sempre, di te, di noi, concludendo come sempre: ricordi?

Siamo sempre state con i ruoli invertiti io e te, oggi ti accudisco come la mamma che non sono stata, ci metto l’anima, ma so che non lo faccio per vederti crescere.

Un pò mi fai rabbia…potevi aspettare a rimuovere tutto…potevi rispondermi ai mille dubbi che a volte mi piegano.

Ma ti sei sempre difesa così..e adesso posso solo tenerti per mano e dirti: parla ancora con me, di te, di noi…anche se non ricordi.

Ancora ci sei..

Gatta sorda o acqua cheta?

Ricordo con terrore gli anni delle scuole medie..devastata dall’acne (viaggiavo con lo zaino e il topexan), ossessionata dalla mole di compiti che ci affibbiavano oggi giorno e dalla compulsione all’esercizio della perfezione, non ritrovo ancora oggi, nemmeno nei meandri più offuscati della memoria, un pò di spensietarezza che a quell’età dovrebbe essere un leit motiv esistenziale.

Poi c’era lei..un incubo..la professoressa di matematica, creatrice di traumi e dubbi sulle mie capacità logiche talmente profondi che sono andata a ripetizione per una vita sognandomi algoritmi e formulette al posto delle pecore la notte.

Aveva una testa tanta così, nel senso che i suoi capelli corvini a criniera di leone la precedevano, e, uniti alla camminata da giraffa incerta, al sorriso ibernato, nonchè alle interrogazioni a catena, soprattutto nei miei confronti, l’avevano trasformata nel peggiore degli incubi, con tanto di attacco d’ansia appena metteva piede (piedone) in classe.

Ma, si sa, in fondo in fondo, facciamo di tutto per compiacere gli orchi delle fiabe, se non altro per non esserne fagocitati, così cercavo di essere sempre attenta, di alzare la mano (che crampi, non intervenivo mai), di sorridere tra le pustole dell’acne.

Niente, mi uccise con una frase detta davanti alla classe..sei una gatta morta.

Dopo innumerevoli pianti e scenate mi sono chiesta perchè.

Perchè gatta morta?

In effetti fino a non molti anni fa avevo timore ad esprimere anche il pensiero più banale, a chiedere a qualcuno che mi stava pestando il piede se per favore lo poteva spostare, a scusarmi all’infinito se non ero ancora diventata invisibile, come nelle mie fantasie più segrete.

Poi si cresce..e le ingiustizie ripetute, la rabbia per la negazione del tuo essere  e tutte quelle cose della vita che ti fanno dire basta, mi hanno insegnato a parlare..e, non avendo il dono della diplomazia, a guardare dritto negli occhi il mio prossimo dicendogli esattamente quello che ho dentro.

Si, ho perso un sacco di gente per la strada per questo motivo, ci ho sofferto un pò, ma alla fine è un problema loro.

E’ più forte di me, un misto fra il carpe diem (se non ti dico tutto oggi domani potrei non esserci per farlo) e un istinto ad espellere le sostanze tossiche, prima che si annidino ovunque.

Ti sei sbagliata prof…non ero una gatta morta.

Perchè non ho mai saputo fare le fusa, far finta di, manipolare un pò la gente per ottenere qualcosa.

Però penso di essere stata un’acqua cheta, un vulcano che ha pazientato e ingurgitato impotenza per poi fare scintille inattese.

E l’acqua cheta ti ringrazia perchè senza il dubbio di essere una gatta morta, oggi non riuscirei ad essere quella che sono.

La memoria del dolore

Un corridoio lungo e buio illuminato solo dal raggio di una pallida luna invernale, la sagoma di lei contro la finestra, il respiro ansioso nel corpo stretto dall’attesa.

Il mio passo lieve, volontariamente invisibile, vicina alla sagoma e impotente davanti alla notte interminabile che mi stava ingollando.

Tutto era cambiato in un attimo e mi attraversava un brivido di paura, l’ignoto mi era noto, per non so quale ragione.

I bambini non possono ricordare, dicono. Non è così. Ti appartiene ogni minuto, ogni respiro, ogni volto, se tu appartieni a loro.

La mattina sono andata a scuola con il mio compagno di banco, mentre le ambulanze sfilavano con le loro sirene assordanti.

Avevano a che fare con me, pensavo, e con quella camera che era rimasta vuota.

C’era un silenzio irreale dentro di me: non era attesa, era solo prendere tempo, prima che arrivasse la parola, la realtà, la sentenza.

Lui non c’era più, ma lo sapevo già.

E tutti quei volti, tanti, quelle carezze, troppe, a invadermi la mente già intorpidita da un dolore sconosciuto, non mi davano sollievo.

Era il mio primo dolore, unico, indimenticabile e volevo solo stare sola.

Ma ai bambini non viene mai permesso di stare soli, soprattutto di fronte al dolore. 

Da allora fuggo la notte, la temo, la controllo, invano, non chiudendo gli occhi quando sarebbe normale farlo.

Se mi avessero lasciato libera di esprimermi, non avrei avuto più paura del dolore, della gioia, degli errori, della vita, come l’ignoto che nessuno controlla.

Magari anche solo riprendere la penna, lasciare una traccia , ritrovare i ricordi come fotografie in bianco e nero, mi dà la forza di consolare la bambina che ho lasciato dietro di me, è lei la voce narrante.

E’ lei che deve dormire, quieta, nel buio delle notti invernali.

Avevo 6 anni quando ho varcato per la prima volta i confini del mio paese, destinazione Germania dell’Est.

Le frontiere erano state riaperte da poco e non mi erano molto simpatici quei loschi figuri che ci chiedevano i documenti armati fino al collo, però la curiosità di scoprire un mondo nuovo era talmente grande che nemmeno quella lingua così ostile riusciva ad abbattere il mio entusiasmo.

Berlino, Monaco, Dresda, Lipsia…città meravigliose sfilavano sotto i miei occhi affamati di cose nuove da conoscere.

Buchenwald, si, proprio quello, era inserito nel tour e non era previsto il bollino rosso che ne sconsigliava la visione.

Con una guida tetra come la terra che ci circondava ci portarono a visitare l’intero campo di concentramento. Ogni immagine è scolpita nella mia memoria: le camere a gas, i forni crematori e tutte le peggiori nefandezze compiute erano lì davanti a me, che non sapevo chi erano gli ebrei, non conoscevo la storia e nemmeno quel nanetto con i baffi che non sorrideva mai e che era il capo di quella banda cattiva, cattivissima, crudele.

Non conoscevo, ma sentivo..la paura, i brividi, il dolore della morte violenta e il silenzio dei nomi rubati, sostituiti da numeri marcati sulla pelle.

Non posso dimenticare, nessuno di noi può farlo..il ricordo rende ancora vivo l’errore, che appartiene al passato come al presente..magari con altri volti, altre forme, altre nefandezze, ma c’è.

Sono tornata da quel viaggio meno bambina. Ancora non conoscevo la Storia, ma la storia già faceva parte di me.

Barbara…

In verità dovevo chiamarmi Luca.

L’assenza delle tecnologie moderne e la fallibilità della saggezza contadina avevano confuso le idee sulla mia natura.

Dopo la sorpresa iniziale ero già per tutti Monica, ma una cugina quasi coetanea si chiamava così e finalmente sono arrivati a Barbara.

Dico finalmente perchè il mio nome mi piace, da sempre.

Forse un pò mi rappresenta, perchè significa straniera.

Si può essere stranieri anche nel proprio paese, a se stessi, alle persone più care, come pure desiderare la conoscenza di quello che è straniero, che non ci appartiene.

Però Barbara è anche BARBARA, una sorta di Attila in gonnella che, per fortuna raramente, in preda agli istinti ed emozioni represse, può far piazza pulita di situazioni, persone e cose senza molto tatto.

Mi dispiace che non sia un nome tenero, anche se ci pensano altri  a dargli una veste diversa.

Barby per abbreviare e lo accetto non senza pensare al fantastico mondo di Big Jim & Company, Barbarina per la maggioranza degli amici e familiari, vista la misura un pò ridotta.

Però a me piace Barbara.

Sono io, se mi chiamo mi emoziono, mi riconosco e non mi perdo.

Dov’è il Maestro?

Penso di aver avuto il privilegio di vivere più vite all’interno di una sola, ognuna, come è naturale che sia, con il suo carico di dolori e gioie, in apparenza molto diverse l’una dall’altra, ma con un denominatore comune: cercarmi.

In una di queste vite ho dedicato molto tempo ed energie alla ricerca della spiritualità e, considerata la mia natura arietina, non mi sono risparmiata: dai guru dell’India agli sciamani delle Ande, dallo yoga, ai cristalli, e così via, in un viaggio altalenante che non mi ha appagato totalmente.

Eppure non rimpiango nemmeno la più piccola esperienza, ogni Maestro, ogni persona incontrata mi ha insegnato qualcosa, ma non si può cercare fuori quello che si ha già dentro.

Come in tutti i viaggi dobbiamo attrezzarci, avere gli strumenti, conoscere, confrontarsi, poi però bisogna fermarsi un attimo e capire se la tua spiritualità ti sarà concessa o trasmessa dal Maestro di turno. Assolutamente no..il viaggio è solo ed esclusivamente dentro di noi e può essere meno complicato del previsto, forse basta solo volerlo.

La persona più spirituale che ho conosciuto e che è ancora qui, perchè vive nel mio cuore, è stata mia zia, la donna che mi ha tenuto con sè per tanto tempo, crescendomi con amore infinito.

Pur avendo avuto una vita bestiale, piena di sofferenza e di perdite, non l’ho mai vista senza un sorriso, senza le mani tese verso gli altri, condividendo la tua gioia, sostenendoti nei momenti peggiori..era cieca ma era capace di cucinare come uno chef affermato lasciandosi guidare dagli odori e dalle sue mani sapienti e delicate. Lei c’era sempre..io, vedendola invecchiare, scappavo per la paura di perderla, per poi tornare fra quelle braccia calde e sempre aperte.

Solo una volta l’ho vista arrabbiarsi, quando ero malata e le ho rotto 4 termometri perchè mi divertivo col mercurio, ma è durata poco, era già diventata rossa per la vergogna di avermi sgridato.

Ecco..lei è stata davvero una Maestra, invisibile ai più, e indimenticabile per chi ha avuto la fortuna di averla vicino, e quando mi cerco è a lei che penso, è nella semplicità che posso ascoltarmi, nel sentiero di D-Io..

Grazie Maestra…

 

 

Il “Ciao Belato”

Se conoscersi è difficile, perché si intrecciano dinamiche, vissuti, passati, presenti, fantasie e “specchi” vari, riconoscersi lo è altrettanto.

Sembra banale, scontato, ma non lo è…basta osservare il prossimo quando si incontra, si scontra, si sfiora, si cerca.

Anche in quel momento emerge tutto quello pensiamo di non fare: etichettiamo.

A parte rare eccezioni, l’amico caro, i familiari e i colleghi, tutto il resto delle conoscenze, nel momento fatale dell’incontro sono accompagnati dal Ciao Belato.

Cos’è? E’ un suono onomatopeico del tutto simile a quello della pecorella neo.svezzata, accompagnato da espressione liftata e sorriso da portatore/trice di byte..

E’ più comune di quello che sembra ed è ormai entrato negli automatismi quotidiani;  copre una vasta gamma di sensazioni che vanno dalla invidia più gretta (Ma come stai beneeeeeee e dentro pensi: stai invecchiando a mille all’ora), all’impotenza (volevo evitarti, ma è maleducato far finta di niente), all’ipocrisia più ignobile (sei amico di lei/lui, mi stai sulle balle, ma non posso ignorarti).

Ecco…di fronte all’irritante Ciao belato, preferisco l’indifferenza, il silenzio, lo sguardo voltato altrove.

Perché non cerchiamo di essere più umani e meno metropolitani?

Vivere di aspettative…

Mi interrogo ogni giorno su di loro..si annidano ovunque e hanno la caratteristica di non poter essere sterminate, o quasi.La mia Psic, che per anni ha tentato di resettarmi, avrebbe tentato pure un esorcismo pur di farmi staccare dalle innominabili aspettative, ma senza successo, credo infatti di essere chiusa nel casetto dei cosiddetti fallimenti terapeutici.Vediamo un po’…è possibile vivere senza? I miei neuroni ballano sfrenati alla ricerca di un ideale che non preveda le suddette, le dipendenze varie, gli attaccamenti e quant’altro di ignobile possa far cadere così in basso l’essere umano. La mia razionalità ammette che sì, sarebbe davvero meglio…invidio, nel senso più sano del termine, chi ne è distaccato, chi basta a se stesso, chi si immerge in mondi solitari, ma lontani e inaccessibili pur di non stare aggrovigliato in un mare di catene..Credo che dovrò rinascere parecchie volte ancora, non solo non ho ucciso nessun maestro, ma li evito come la peste.Ma sono l’unica? Mi alzo la mattina e ASPETTO di ingurgitare la mia macchinetta (da 4) di caffè, macchiata con il latte e mi ASPETTO lo strizzone che segue nel giro di dieci minuti, vista la colite cronica con cui convivo dal primo biberon.Mi ASPETTO  che la macchina parta al primo colpo e di non trovare quel dannato passaggio a livello, mi ASPETTO  che qualche collega mi dica buongiorno e mi ASPETTO  di non avere più grane di quelle che quotidianamente ho.Posso arrivare fino all’ora in cui vado a letto, ma è così…la giornata è intrisa delle famigerate aspettative, con le loro fauci desiderose di azzannare un’isoletta incantata, piccolina, con una palma di plastica dove sei sola e intoccabile.Per me è un’utopia, lo ammetto non senza un fastidioso senso di impotenza-barra-fallimento, ma alzo bandiera bianca davanti al desiderio ancestrale di un abbraccio, di un contenitore caldo, che, se mi viene negato, mi getterà nella disperazione più totale, di fronte all’abbandono di qualcuno che amo, che mi lascerà stramazzata al suolo, di fronte al pacchetto vuoto di sigarette, che mi provocherà un attacco d’ansia, e così via..Sono aspettativa-dipendente, non ne sono fiera, ma ci convivo..e so per certo che anche la delusione più grande non mi ucciderà..mentre la fantasia che riesce ad essere appagata mi farà salire le endorfine ai massimi livelli.Non ci rinuncio, preferisco chiamarmi Alice e ricordarmi ogni volta che non esiste il paese delle Meraviglie, che controllare inconscio & C., e si, lo confesso…mi ASPETTO che piaccia quello che scrivo.

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